Incertezza è la parola più usata in Gran Bretagna da sei mesi a questa parte. Incerte le imprese, che perciò non investono. Incerti i politici, che non sembrano non sapere che pesci prendere. Incerti soprattutto i cittadini dell’Unione Europea, che ignorano quale sarà il loro futuro nel paese che hanno scelto come seconda patria. Dopo la Brexit il sentimento più comune è quello di non essere più i benvenuti. E in molti si chiedono se valga la pena perdere tempo e denaro per affrontare il complicatissimo iter burocratico che porta alla cittadinanza di un paese che sembra non volerti più.
LAVORO – «Non sappiamo nulla del nostro futuro, se possiamo rimanere qui oppure se saremo costretti a partire». È abbastanza sconsolato il 31enne spagnolo David Olivares, in Inghilterra da 6 anni. «Probabilmente per chi è qui da almeno cinque anni dovrebbe essere più facile ottenere un permesso di lavoro. La domanda è se si troverà lavoro. Qui si parla di reclutare cittadini britannici nel sistema sanitario, ma senza le infermiere che vengono dai nostri paesi non andrebbero avanti. Stessa cosa per i baristi. La verità è che non possono espellere troppa gente. Ma dopo la Brexit noi europei non siamo più i benvenuti, almeno non come eravamo prima del referendum. Ci sono tante domande e nessuna certezza, ma penso che dall’anno prossimo per un europeo sarà più difficile venire da queste parti. Magari decideranno di andare a Dublino se vogliono imparare la lingua o in Francia e Germania se cercano lavoro. Anche come meta turistica Londra rischia di pagare un prezzo salato».
DELUSIONE – La preoccupazione emerge anche dalle parole di un altro spagnolo, il 35enne Fernando Garcia. «Sono 8 anni che vivo e lavoro nel Regno Unito – dice -. Mi sono sempre sentito benvenuto e, anche se apparteniamo a due nazioni culturalmente molto differenti, non avrei mai pensato che la Brexit potesse avvenire sul serio. Il pragmatismo britannico mi ha sempre impressionato favorevolmente, ma questo sentimento è svanito in un attimo dopo il referendum». Anche per lui, il problema principlae è l’incertezza: «La cosa peggiore è non sapere come avverrà il divorzio (tra UK e UE, ndr), se il mio status rimarrà invariato o se diventerò un cittadino di seconda categoria». Altra questione molto sentita è che i politici europei, al pari di quelli britannici, sembrano considerare i rispettivi cittadini come pedine da usare al tavolo delle trattative: «Dall’Europa – prosegue Garcia – affermano che non si parlerà di quello che accadrà a 3 milioni di cittadini UE che vivono e lavorano qui fino a quando il governo britannico non attiverà l’articolo 50. Spero davvero che i nostri rappresentanti a Bruxelles abbiano un piano affinché le trattative sul nostro status abbiano buon esito e che i politici da ambo le parti non decidano di usarci come merce di scambio».
CITTADINANZA – Tutt’altro che ottimista anche il 33enne Giuseppe Bruni. «Tre settimane dopo il referendum sulla Brexit – racconta – l’azienda per cui lavoravo mi ha comunicato che ero a rischio esubero. A fine luglio ho dovuto abbandonare il mio posto di lavoro dopo quasi cinque anni, al pari di altri sette colleghi stranieri, mentre i restanti cinque colleghi inglesi a rischio sono rimasti dov’erano». Il referendum è stato il colpo finale: «Volevo iniziare le pratiche per ottenere la cittadinanza, dopo il sì ho cambiato idea. C’è stata tanta speculazione a cavallo del referendum e purtroppo continua, molte aziende non sanno davvero cosa fare. Per quelli che vivono nel Regno Unito, la sostanza è più o meno la stessa. Ad oggi non so dove sarà il mio futuro, ma presumo lontano da qui se davvero sarà Brexit».